Perché “The Black Fig”?
The Black Fig intreccia ricordi, sapori e stagioni.
Il fico nero è un frutto denso di ricordi. Un ricordo d’infanzia è un tetto bianco, abbacinante sotto la luce del sole estivo. È il tetto del mio bisnonno pugliese, che usava seccare i fichi neri su quel tetto, tagliati a metà con nel mezzo una foglia d’alloro, poi li riempiva di mezzo gheriglio di noce. Il loro gusto inconfondibile era dato proprio da quella foglia d’alloro, e dal sole che li aveva seccati.
Mio nonno, suo genero, portava in Toscana un barattolo dei suoi fichi ogni volta che lo andava a trovare e ne dava uno alle nipoti quando andavano a trovare lui, nella sua cantina-falegnameria colma di oggetti che mi incuriosivano all’eccesso. Erano fichi duri, da tenere in bocca come una caramella che lentamente si scioglie e svela il suo gusto.
È il ricordo all’albero del fico vicino al vecchio pozzo, nel giardino dove sono cresciuta, piantato dall’altro bisnonno, quello toscano, intorno al quale giravo alla ricerca di un frutto alla mia altezza (ma ero troppo bassa). Non erano fichi grossi e rotondi, ma piuttosto smilzi, asciugati dal sole eppure ancora polposi, di una polpa zuccherina e concentrata di chi ha maturato a lungo sotto il sole.
Il fico nero è in cucina un frutto versatile. Si associa all’estate, quando lo si gusta con prosciutto crudo, un formaggio cremoso o in un dolce, ma anche d’inverno, quando, secco, arricchisce i dolci e la tavola della festa. Il sapore intenso e zuccherino del fico nero e il profumo dell’albero di fico sono legati al caldo dell’estate italiana, accompagnata dal fisso rumore delle cicale – di cui mi ricordo d’inverno, quando ne mangio uno essiccato. Sta per una cucina che segue le stagioni, curiosa d’innovazione e che ama gli esperimenti che rendono contemporanee le tradizioni.
Per me il fico appartiene all’immagine dell’Italia rurale, quella assolata e un po’ deserta, in piena estate. È l’albero che trovo ai bordi delle strade di campagna e che offre un riparo ombroso dal sole ardente. Il profumo delle sue foglie è uno dei profumi dell’estate.
Infine una considerazione estetica. Il fico è un frutto semplice. Da fuori. È un frutto semplice e schietto, d’un viola quasi nero, liscio e forse un po’ rugoso. Eppure, oltre la buccia, svela una complessità che non ci si aspetterebbe, una polpa ricca di colore e struttura. Uno dei motivi per cui nell’antichità era un simbolo per la sensualità. Può essere anche da questo punto di vista una metafora per la cucina che ho in mente.
La cucina vista da me
Amo il cibo, non credo di aver mai saltato volontariamente un pasto, anche nei periodi peggiori. Mangiare è sempre stato un atto rassicurante e cucinare il mio modo creativo d’esprimermi, che mi porta serenità.
Mi piace la varietà della cucina povera e non sofisticata, quella che parte da ingredienti semplici ma di grande qualità e che, con fantasia e capacità, può arrivare a grandi piatti. Credo in questo di riconoscere le radici toscane della mia vita. Dopo essere tornata in Italia, dopo anni di vita all’estero, mi sono resa conto di quanto sia facile, qui, trovare questi ingredienti e così poco banale trovare, altrove, una solida cultura enogastronomica. Alla base di ogni piatto sta la qualità degli ingredienti che lo compongono. Non si può fare la pomarola con pomodori che non sanno di nulla.
Non amo i cooking show (e gli show cooking che dilagano agli eventi), gli chef (anche stellati) che fanno TV o pubblicità per prodotti che difficilmente entrerebbero nella cucina del loro ristorante stellato. Mi sembra una mancanza di etica culinaria, un essere mercenari del marketing. Mi piacciono alcuni documentari su chef e ristoranti, che ti segnalo in questa pagina.
Non mi piacciono neppure un granchè i ristoranti stellati, se non come esperienza estetica e gusto-olfattiva, che se mi capita (e decido di spenderci tutti quei soldi), faccio volentieri. Credo tuttavia che una tale cucina abbia poco a che fare con il mangiare se non mette al centro gli ingredienti, la loro origine e la storia delle persone che li producono e li trasformano e che rimanga, altrimenti, solo estetica e virtuosismo. Sono una tipa da osterie, insomma, sia quelle che propongono una cucina ruspante che quelle con una cucina più elaborata. L’importante è che questa sia stagionale e il più locale possibile. Così come ci sono gli enofighetti, ci sono pure i gastrofighetti: con entrambi vado poco d’accordo.
Insomma, la strada è ancora lunga: e menomale! Sennò che gusto c’è?