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Cos’è l’enologia a basso impatto?

21/11/2019 Da Francesca

Giù le mani dal vino! Si può intendere così l’enologia a basso impatto? Riflessioni e un’intervista

enologia a basso impatto

Chi sarà costui? L’enologo che lavora per produrre “vino naturale”? A parte gli scherzi, quando ho visto questa immagine su Instagram ho pensato che fosse divertente, chiedendomi che ruolo oggi abbia un enologo nella produzione del vino artigianale. A mio avviso è questa una domanda-chiave per chi si occupa di vino e per i bevitori più consapevoli.

Il concetto di “low intervention winemaking” è traducibile con “enologia a basso impatto” o “enologia non invasiva” ovvero: in cantina meno fai, meglio è.
I low intervention wines sono sinonimo di “vini naturali”, un fenomeno che oggi è difficile da ignorare (e da definire), anche per chi si occupa di vino. Perché? Cosa significa, precisamente, fare un vino praticando un’enologia a basso impatto?

L’indagine: cosa si intende per enologia a basso impatto

Se cerchi su Google “low intervention winemaking” ottieni una serie di articoli sul “vino naturale”: si vede che c’è un filo diretto? Direi proprio di sì! Ovviamente ho provato anche una ricerca in italiano, ma senza risultati soddisfacenti. Mi sono un po’ documentata in rete e la letteratura sul tema viene quasi esclusivamente dagli USA. Lascio l’interpretazione di questa lacuna in lingua italiana a chi volesse rifletterci e commentarla.

Generalmente un “vino naturale” è prodotto in piena libertà da ogni intervento chimico e fisico. L’obiettivo è di produrre vini autentici (contrapposti a quelli “aggiustati” per il mercato), che siano espressione del loro territorio, dell’annata e delle scelte individuali del vignaiolo. Chi dice di fare in cantina il meno possibile di solito aggiunge che il grosso del lavoro lo si fa nelle vigne. Al che mi assalgono delle domande: come ci si comporta se la natura quell’anno non aiuta (umidità o calore eccessivi, bombe d’acqua, malattie conseguenti ecc.)? Si butta via l’uva? Si fa vino sfuso?

Per darti una prima opinione su cosa possa significare “enologia non invasiva”, riporto un breve elenco delle principali regole* di cantina seguite (in parte e in tutto) da chi produce “vino naturale” secondo A. Feiring (giornalista e autrice, una delle figure-chiave del movimento del vino naturale). Da molti considerata un’estremista, è comunque una delle voci da conoscere per chi si occupa di vino oggi.

A chi non lavora nel vino, non tutte le pratiche qui nominate saranno chiare; sono utili tuttavia per farsi un’idea generale:

  • Nulla dovrebbe essere aggiunto in cantina che non provenga dall’uva stessa
  • Utilizzo esclusivo di lieviti indigeni presenti sulle bucce al momento della vinificazione
  • Fermentazione spontanea delle uve
  • Nessuna aggiunta di enzimi
  • Nessuna aggiunta di batteri
  • No tannini aggiunti
  • Nessuna aggiunta di sostanze chimiche
  • Nessun aggiunta di prodotti in legno (chips, granulare ecc.)
  • Nessuna acidificazione
  • Nessun aggiustamento del grado alcolico
  • No osmosi inversa
  • Minima aggiunta di solfiti
  • Io aggiungo che alcuni sostengono che in nessun caso debba essere controllata la temperatura durante la produzione del vino

Serve l’enologo a chi fa “vini naturali”?

Alcuni vignaioli arrivano addirittura ad affermare che non ci sia più bisogno della figura dell’enologo. Personalmente credo che questa posizione sia un estremismo o faciloneria: o chi fa il vino ha già le conoscenze e l’esperienza di molte vendemmie alle spalle, o produce vino in un microclima in cui il vino viene bene quasi da solo (!). Conoscenza e esperienza in cantina ci vogliono, e se il vignaiolo le possiede solo in parte, per produrre vini apprezzabili, con meno pecche possibili, c’è bisogno di una persona che conosca bene il lavoro di cantina necessario in quel territorio, su tutti il processo di fermentazione e tutto ciò che è a esso collegato (PH, lieviti, gestione macerazione, gestione temperature ecc.).

Mi interessa capire qualcosa di più su come si possa intendere oggi l’enologia e soprattutto cosa sia un’enologia non invasiva, magari da un enologo. Vorrei anche comprendere meglio se e come l’enologia a basso impatto sia definibile come quel nuovo tipo di enologia usata per produrre i “vini naturali”: c’è effettivamente una correlazione tra low intervention winemaking e “vini naturali”?

L’intervista: Fabio Ferracane

Partecipando a molte fiere di vino artigianale, ho parlato con tanti vignaioli (e ancora troppo poche vignaiole!). Tra questi, c’è n’è uno che, oltre a fare il vignaiolo, è anche enologo di nuova generazione (ovvero assai giovane). Un giovane enologo che fa “vino naturale” e si autodefinisce “vignaiolo”: mi è sembrato che potesse essere utile all’indagine fargli qualche domanda. Abbiamo fatto una chiacchierata e mi ha dato la sua opionione sul tema, rispondendo gentilmente ad alcune mie domande.

Fabio Ferracane, 34 anni, produce vino naturale in Sicilia dal 2011. Oltre al lavoro nella sua azienda, lavora come consulente enologo per alcune aziende vitivinicole e collabora ad alcuni progetti assieme ad altri vignaioli “naturali”. Gli ho posto 4 domande, al fine di approfondire il tema della “low intervention winemaking“.

1) Durante i tuoi studi di enologia all’università, ti hanno mai parlato di un’enologia a basso impatto?

Ai tempi dell’università si parlava poco di vini naturali, tanto meno di low intervention winemaking. All’università ci hanno insegnato che l’enologia è lo studio del vino, ovvero di un processo biochimico chiamato “chimismo della fermentazione alcolica”, un processo che avviene in condizioni di anaerobiosi grazie ai lieviti presenti nelle uve, trasformando gli esosi (zuccheri fermentescibili) in alcol e glicerina.

Praticamente la fermentazione alcolica avviene tramite due vie: dalla fosfogliceraldeide si ottiene l’alcol etilico e dal fosfodiossiacetone si ottiene la glicerina. La fermentazione alcolica avviene in ambiente acido, cioè con un basso pH, ma, variando tale grandezza, le fermentazioni possono deviare in vie più o meno sgradevoli (ad es. produzione di tanta glicerina, acetaldeide, alcol secondari).

A mio avviso per l’università fare un vino naturale significa fare un vino senza controllo del chimismo della fermentazione, e quindi significa praticamente non aver studiato enologia.

2) Cosa significa per te fare un vino praticando un’enologia a basso impatto?

Fare un vino praticando un’enologia a basso impatto significa fare un vino che sia la massima interpretazione di un territorio, fare un vino che ne sia soprattutto l’espressione autentica.

Ciò si ottiene ad esempio facendo pochi trattamenti di zolfo e rame contro le malattie della vite. Quest’anno nella mia azienda abbiamo effettuato solo 2 trattamenti di zolfo e rame; l’hanno scorso 3 trattamenti – i trattamenti li decidiamo in base alle annate, piovose o meno, ma soprattutto in base al grado di umidità in vigna. Ciò si ottiene anche utilizzando quasi nessuna chimica in cantina, aggiungendo solo pochissimi solfiti (in alcuni vini) in fase di pre-imbottigliamento.

Per i vini con pochi solfiti utilizzo un breve controllo delle temperature in fase di fermentazione tumultuosa: in questo caso la massa è grande e mi preoccupo che la fermentazione si blocchi. Dobbiamo considerare che in Sicilia la temperatura arriva nel periodo di agosto-settembre fino ai 35°- 40°C e che si alza ancora di più durante una fermentazione senza controllo di temperatura.

Per gli altri vini (senza solfiti aggiunti e senza controllo di temperatura), le masse sono minori e quindi non mi preoccupo che si blocchi la fermentazione, in quanto sarebbe una situazione facile da sistemare.

3) Di solito chi fa vini artigianali pratica un’agricoltura sostenibile, biologica o biodinamica. Che relazione c’è per te tra un’enologia a basso impatto e il lavoro che si fa in vigna?

Io penso che tra la vigna e la cantina debba esserci una stretta relazione. Se la vigna la tratti bene (la potatura secca, la potatura verde, pochissime arature, e pochi trattamenti, se necessari), si ottiene un’ottima uva che necessita di quasi nessun intervento in cantina. Non mi interessa produrre grandi quantità di uva, ma avere poca quantità di ottima qualità. In caso di annate non ottime è importante fare cernita dei grappoli, in modo che arrivi in cantina l’uva non malata e quindi si abbiano fermentazioni regolari, così da produrre vini puliti con poche sbavature (es. acido acetico).

4) Pensando alla storia dell’enologia dagli anni ’50, si vede una tendenza volta a diffondere modalità standardizzate di vinificazione, a favore dei vitigni internazionali e a pratiche in cantina volte a realizzare un vino sempre più “pulito” e ad hoc per il mercato. Benché ancora presente, questa tendenza è stata (fortunatamente) frenata negli ultimi 10 anni da cambiamenti nei metodi di produzione e di agricoltura, volti a produrre un vino che rappresenti il territorio e l’annata in cui nasce.
Qual è a oggi secondo te il ruolo dell’enologo in cantina?

Partendo dalla mia esperienza personale, credo che il mio ruolo di enologo sia importante perché:

– conosco bene il chimismo della fermentazione, e quindi so quando raccogliere le uve (controllo del pH) per avere una fermentazione pulita con poche sbavature;
– grazie allo studio dell’enologia ho capito che il vero vino non è chimica ma è territorio;
– sono enologo sulla carta ma nella vita faccio il vignaiolo: c’è differenza! L’enologo sta in cantina, sistema il vino, lo migliora, lo modifica, lo assembla, spesso lo degusta e decide se migliorarlo o meno. Il vignaiolo sta in vigna, le alleva, le sistema, seleziona le migliori uve, le porta in cantina e le vinifica facendo un vino che sia la massima espressione territoriale, lo imbottiglia e lo vende!

Si è conclusa così la mia indagine… magari! Più approfondisco, più mi faccio domande. Arriverò mai allo “zoccolo duro dell’essere”**? Conoscendomi, credo che il viaggio sia la mia meta.

Alcune fonti:

  • 6 reasons to drink low intervention wine, 2018.
  • 6 Questions About Natural Wine You’re Too Embarrassed to Ask, 2019.
  • *Clark Smith, Postmodern Winemaking: Rethinking the Modern Science of an Ancient Craft, 2014, p. 247.
  • **U. Eco, Kant e l’ornitorinco, 1997.
  • Daniele Cernilli, Orgoglio enologico, Doctorwine 2019.
  • Fabio Pracchia, Pudore enologico, Slow Wine 2019.

Photo credits: @low_intervention

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Conosci la roveja? Oggi ci abbiamo fatto la zuppa. Conosci la roveja? Oggi ci abbiamo fatto la zuppa. È un legume antico, dell'Umbria, coltivato anche nelle campagne limitrofe. Io infatti l'ho scoperto a Rieti.🧐
È molto bello, con colori variegati. Da secco assomiglia ai grani di pepe. Da cotto, per aspetto e consistenza, è una via di mezzo tra piselli e lenticchie.
Botanicamente sembra un parente antico del diffuso pisello.
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