Il racconto dei pettini fritti, la pesca e un inno alla Corsica.
Appena riaperte le frontiere, io, nipote e genitori/nonni siamo partiti per la Corsica. Forse la conosco meglio della Toscana, di certo l’ho girata più sistematicamente, dai monti alle coste. Negli ultimi 30 anni è cambiata molto, ma non abbastanza da allontanarmene. Si è affollata, ma conservando angoli autentici per solitari. Basta cercare.
Il turismo di massa è arrivato, anche con l’apertura dei voli economici per Bastia, e negli ultimi 10 anni i campi selvaggi sono stati trasformati in buona parte in vigne.
La lingua corsa si sente parlare sempre meno, sta scomparendo con la morte degli anziani. Eppure io, che non so il francese, raramente ho difficoltà a farmi capire in italiano. Il modo di fare delle persone è rustico, ma sono toscana e non è poi così diverso da quello di pisani, livornesi o garfagnini.
Inno alla Corsica
Sono innamorata, è un’isola che che offre tutto: dalle montagne altissime (il monte Cintu, il più alto, è 2706 m.) alle spiagge e agli scogli più vari (sabbia bianca e fine, sabbia grossolana, sassi bianchi, scogli di granito rosa ecc.), dai boschi (che mi ricordano l’Appennino Tosco-Emiliano) con ruscelli freddi e tersi al deserto di polvere e macchia mediterranea (il deserto dell’Agriate). Ci sono borghi fermi nel tempo, incui l’attività più interessante è ascoltare i vecchi corsi (che ancora parlano corso) nel bar del paese o osservare le signore affacciate alle finestre.
La cucina tradizionale corsa è cucina di montagna e di pascoli: formaggi freschi e stagionati, la farina di castagne e il cinghiale in umido con le prugne; i mieli e i fagotti di erbe; la zuppa con pasta, fagioli e cotenne, il Brocciu (la tipica ricotta corsa di pecora e/o capra, nel fiadone o nelle frittelle), la polenta di castagne che ormai non si mangia più perché sono (e siamo) diventati benestanti, le frittelle.
Il vino? Non ho studiato la storia del vino corso, ma da quel che osservo da anni i vini rosati sono conosciuti come il fiore all’occhiello della viticoltura corsa. La Corsica ha 9 AOC e la zona più conosciuta è quella di Patrimonio, vicino Bastia. I vitigni più importanti, con chiare radici toscane, sono tre: il Nielluccio (Sangiovese), lo Sciaccarellu (imparentato col Mammolo) e il Vermentinu.
Con una breve ricerca su internet ho visto che ci sono un paio di aziende di “vino naturale“, nella zona di Patrimonio, che ancora non ho potuto visitare.
Il pesce, se lo si vuole, si mangia sulla costa, nei tanti ristoranti più o meno turistici. Se si ha fortuna o ci s’informa bene, si mangia anche pesce buono. Oppure si pesca.
Mi hanno raccontato un po’ della storia socio-economica dell’isola. Una volta si abitava sui monti o in collina, perché le coste erano paludi ed erano pericolose, soggette a scorribande e tempeste. Quando quando morivano i genitori, l’eredità era chiara: i pascoli andavano ai figli, mentre le terre costiere, che valevano poco, alle figlie. Allorché è iniziato il turismo le terre costiere, come ci si può immaginare, sono diventate quelle di maggior valore economico. Le donne erano le ricche, gli uomini con i loro pascoli lottavano di più per campare. Per questo la cultura corsa si è sviluppata sui monti e così la sua cucina tradizionale.
Il pesce pettine
I pesci pettini o sùrici (così chiamati in Calabria) sono divertenti da pescare, perché sono voraci e “tirano” tanto quando abboccano. Sono proprio belli, ricordano i pesci tropicali, hanno dei colori magnifici e le loro striature richiamano appunto i denti di un pettine.
In Italia non sono molto diffusi, se non localmente e soprattutto in Calabria e un poco in Sicilia, dove sono considerati pesci pregiatissimi. Sono diffusi in tutto il mar Mediterraneo e nell’Oceano Atlantico.
Vivono su fondali sabbiosi e vicino alle acque dolci, ad esempio in vicinanza dello sbocco di un fiume. Si trovano sui 10-12 m. di profondità e si raggruppano dove ci sono le scalumate, ovvero le variazioni di fondale.
A pesca di pettini
Sin da piccola mio padre ci ha insegnato “a fare i beci” (vermi in toscano, in questo caso vescicole o renelle) e ci ha portato a pesca. Più spesso su piccoli gommoni, talvolta su una barchetta, con canne a mulinello, si andava a pescare i pettini. Un bel gioco e un’attività molto educativa, secondo me. Il babbo mi mostrava come inserire il verme nell’amo, dopodiché dovevo farlo da sola. Finché c’erano i beci, ce la potevo fare. Ma avevo schifo e paura dei cosiddetti vermi “coreani”. In fondo era colpa di mio padre, che mi diceva che davano i morsi.
Ebbene a 41 anni, dopo una ventina di anni, sono rimontata con un gommoncino e ho preso in mano una canna da pesca, così antica che era la stessa che mi dava da piccola. Il pomeriggio prima, durante la mia passeggiata sulla lunga spiaggia deserta, avevo fatto molti beci ed ero già felice come una bambina per averli trovati.
Si parte verso le 17 e ci si ferma a ca. 800 metri dalla costa, bellissima da guardare a distanza. Innesco, calo un po’ goffamente e tiro subito su: aveva già abboccato! Quasi ci sono rimasta male, era stato troppo facile ma significava che eravamo nel punto giusto. Caliamo e tiriamo su a un ritmo costante, i pettini sono voraci: alla fine sono 47!
Ci siamo spostati 4-5 volte col gommone, per tornare nel punto giusto, col fondale (sabbioso) adatto. Ho provato anche la grande soddisfazione di riuscire a slamare i pesci, grintosi e mordaci con quei dentoni rosa. La maggior parte dei pettini erano piccole femmine, ma ogni tanto ha abboccato anche qualche “verdone”, il pettine maschio, credo, più grosso e panciuto.
La gioia rara di sentirmi felice come quand’ero bambina, con quell’entusiasmo senza ombre, senza pensieri, concentrata sulla bellezza del momento e dell’esperienza che stavo vivendo, insieme a mio padre: un tempo prezioso, da custodire nel cuore, quel paio d’ore in mare con lui. Lo stesso vale per gli ultimi 4 mesi trascorsi a Pisa a vivere con i miei e a vedere, giorno dopo giorno, crescere la mia nipotina; un regalo inaspettato di tempo imprevisto, nonostante le preoccupazioni lavorative e l’assenza di libertà di movimento.
I pettini fritti e una pasta alla matalotta
Anzitutto andavano sbuzzati 47 pesci, cosa di cui si è occupato mio padre la mattina dopo, in riva al mare, mentre io lavoravo. La sera il menù prevedeva pettini fritti! Si infarinano e si friggono in olio bollente. La pelle diventa croccante, arancione e saporita. La carne di questi pesci si separa facilmente dalla spina dorsale, senza fastidiose lische. In 4 ce ne siamo mangiati di gusto più di 35.
Con quelli rimasti mio padre ci ha deliziato il giorno dopo con la pasta alla matalotta, di origine siracusana. Si soffriggono capperi non dissalati e pomodorini, poi si rosolano i pesci in una teglia (tipo da lasagna) con poco olio. Si aggiunge un bicchiere di vino bianco, poi riempi la teglia di acqua fino a superare i pesci di 1 cm e lasci cuocere per altri 10 minuti. Poi togli i pesci, levi pelle e lische e spezzetti grossolanamente la carne. Nell’acqua rimasta, al sapore di mare, cuoci gli spaghetti e 10 minuti prima ci riaggiungi i pesci. Infine aggiungi prezzemolo tritato e un filo di olio crudo. Godi.